L’economia italiana è in piena depressione dalla quale difficilmente potrà tirarsi fuori con la politica proposta dall’Ue.
A Cernobbio il ministro Padoan ha detto che tutti hanno sbagliato le previsioni. Sarebbe stato più corretto se avesse affermato che qualcuno non ha sbagliato, ma il Governo non è stato a sentire.

Le scelte di politica monetaria di Mario Draghi sono arrivate troppo tardi e serviranno solo a sostenere l’attività bancaria e finanziaria; la trasmissione degli effetti all’economia reale necessita la riaccensione del secondo motore dello sviluppo economico, l’edilizia e le costruzioni. Le esportazioni non possono fare più di quello che hanno fatto. Se non si riaccende il motore dell’edilizia, l’economia e l’occupazione non ripartono; la prima cosa da fare è smettere di annunciare nuove tasse sulla proprietà immobiliare e la seconda far affluire credito al settore convincendo Draghi di considerarlo un propulsore indispensabile della domanda e spingendo la Bei a svolgere un ruolo più attivo nel finanziamento.


Nel ’92 abbiamo firmato un Trattato che prevedeva la perdita volontaria della sovranità monetaria e l’impegno a usare in un determinato modo la sovranità fiscale. Coloro i quali hanno propiziato il vincolo esterno più stretto erano convinti che l’Italia sarebbe stata indotta ad affrontare due problemi: il costo e l’inefficienza della pubblica amministrazione e le rigidità del mercato del lavoro; e che la moneta unica avrebbe portato all’unificazione politica, essendo presupposto indispensabile perché una moneta cartacea e scritturale abbia dietro un potere statuale, mentre oggi l’euro è simile a un debito old style dei defunti istituti di emissione. Entrambi queste attese si sono mostrate infondate, ma i gruppi dirigenti non vogliono prendere atto dell’errore commesso; preferiscono condurre il Paese verso un nuovo sottosviluppo, dove pagheranno i lavoratori, i piccoli imprenditori, i disoccupati, le famiglie meno abbienti. Gli imprenditori capaci investiranno all’estero e si sottrarranno agli effetti della loro stessa decisione di voler rimanere nell’euro.

L’Italia aveva una valvola di sicurezza per le crisi produttive, la svalutazione della lira; questa premiava la parte dinamica esportatrice dell’economia, creava inflazione quando la dimensione della svalutazione sfuggiva di mano, agiva in modo subdolo sul potere di acquisto dei salari determinati da contratti di lavoro “rigidi” e consentiva di tollerare parte delle inefficienze della pubblica amministrazione. Bloccare il cambio era una soluzione valida, se essa avesse indotto a modificare i due ostacoli allo sviluppo, burocrazia pesante e lavoro rigido; poiché non lo è stato, ora abbiamo un cappio in più al collo, essendosi aggiunta l’impossibilità di svalutare l’euro per la rigidità statutaria della politica monetaria europea.


Essendoci addentrati troppo nella crisi e preso altri stringenti impegni fiscali, peraltro su basi illegittime (il fiscal compact), imporre oggi le due indispensabili riforme non può che aggravare la condizione dell’economia e del Paese: una minore rigidità del lavoro non creerebbe occupazione in misura pari a quella che distruggerebbe, perché la concorrenza salariale del resto del mondo è troppo forte e perché gli imprenditori seguono la loro convenienza a livello globale; e perché una riforma della PA richiederebbe una riduzione delle leggi e dei poteri della burocrazia che avvierebbe un periodo di disordine normativo e amministrativo. Il Paese è stato investito da un’ondata di nuove leggi anche dagli ultimi tre governi e parecchie centinaia di decreti attuativi sono in gestazione e prevedono l’ampliamento dei poteri dei burocrati. Il cittadino è costretto ad astrusi inseguimenti per assolvere agli impegni soprattutto fiscali e questi impegni burocratici riducono la produttività individuale e di sistema.

Dobbiamo pertanto valutare costi e tempi delle due possibili uscite dalla crisi: abbandonare l’euro, preparandosi a fronteggiare il (possibile?) attacco speculativo, ma recuperando il controllo delle nostre sorti o inducendo l’Europa a cambiare rotta politica; o pagare il costo delle due (impossibili?) riforme per restare in questa Europa, accettando il degrado coloniale del Paese. Purtroppo l’élite patisce una pericolosa e crescente attrazione verso la seconda soluzione.